A un semaforo, aspettando il verde
A un semaforo, aspettando il verde, mi colpì la scena al mezzanino dell’edificio che avevo dinanzi: decine di uomini e donne nel riquadro
di grandi finestre correvano, correvano, restando però lì dov’erano, sudati
e paonazzi, rivolti verso la strada. Non era la prima volta che vedevo
una palestra, ma l’immagine di tutti quei giovani che, finito l’orario d’ufficio, erano corsi a smaltire frustrazioni e grasso mi pareva riassumere tutto il senso di quella civiltà: correre per correre, andare per non arrivare da nessuna parte.
Mi parve d’essere uno dei tibetani della storia che mi raccontò una volta
il fratello del Dalai Lama. Nel 1950 una delegazione di monaci e funzionari che non erano mai usciti dal Tibet venne invitata a Londra per discutere cosa l’Inghilterra poteva fare per il loro paese. Venivano da un mondo povero, primitivo, ma bellissimo. Erano abituati a grandi spazi vuoti,
a una natura coloratissima e loro stessi erano colorati nelle loro tuniche,
nei loro cappotti e berretti.
A Londra furono ricevuti con grande cortesia e portati a giro a vedere
la città. Un giorno, coi loro accompagnatori, i tibetani si ritrovarono nella metropolitana. Erano esterrefatti: tutta quella gente sotto terra!
Uomini vestiti di nero, con la bombetta in testa, leggevano il giornale sulle scale mobili, la folla si accalcava nei corridoi correndo per salire sui treni in partenza; nessuno parlava a nessuno, nessuno sorrideva!
Il capo dei tibetani si rivolse, pieno di compassione, all’accompagnatore inglese e gli chiese:
“Cosa possiamo fare per voi?”
Tiziano Terzani
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