L’uso del silenzio ostinato
L’uso del silenzio ostinato, nelle interazioni interpersonali, può innescare uno stato di pesante incertezza emotiva, come se ci arrivasse il messaggio, “tu non esisti”.
Diceva Elias Canetti ” Ci sono alcuni che nel silenzio raggiungono la loro massima cattiveria”.
Un silenzio determinato e severo, a volte, può risultare più umiliante e devastante rispetto un giudizio verbalizzato.
“L’uso del silenzio è senza dubbio una delle forme più subdole di abuso emotivo, un’arma invisibile per evitare il confronto diretto e gestire così la relazione in modo manipolatorio”
Nelle relazioni sentimentali e familiari c’è chi usa il silenzio come punizione, per manipolare o addirittura svilire l’altro…
In questi casi il silenzio diviene una vera e propria arma, un’arma che chi la usa sa destreggiare bene, la si usa, infatti, con molto mestiere.
C’è chi, dopo un diverbio o uno screzio, o anche senza causa apparente, riesce a “tenere il muso” e alla classica domanda che gli viene fatta: “Cosa c’è che non va?” si ottiene una risposta fredda e disarmante, “Niente!”. E poi, ancora silenzio.
Per quanto banale possa sembrare il fatto di “tenere il muso”, in realtà stare in una relazione affettiva con una persona che usa sistematicamente il silenzio può rivelarsi un’esperienza molto pesante.
Il silenzio in risposta a una domanda o a una richiesta di contatto produce un vuoto che, non potendo essere riempito da risposte oggettive, viene inevitabilmente saturato dai dubbi di chi ti ha posto la domanda.
La mancanza di dialogo può impedirci di comprendere per che cosa veniamo effettivamente “puniti” (e cioè dove abbiamo sbagliato, se pure abbiamo sbagliato) e comunque ci nega la possibilità di spiegare le nostre ragioni, di difenderci dalle accuse, di rimediare in qualche modo al danno.
Il silenzio infatti interrompe il ponte tra noi e l’altro e ci consegna a una condanna senza motivazione e senza appello, togliendoci l’unico appiglio possibile: il contatto.
L’uso del silenzio nasconde tante verità.
Certo, tutti abbiamo il diritto di non rispondere a una domanda ma non nell’ambito di una relazione, di un’amicizia o di semplice frequentazione, quando la richiesta rappresenta qualcosa di importante. E non si parla di gente con problemi di memoria che dimentica la tua domanda ma gente che sceglie di non rispondere, ne con le parole, ne con i fatti. E non per un periodo definito: non ti risponde e basta. Perché alcune persone reagiscono ai conflitti con il silenzio?
In primo luogo, è bene non confondere il silenzio che nasce dalla volontà di non discutere: si è compreso che il conflitto ha raggiunto una fase di stallo e non si vuole aggiungere benzina sul fuoco. In questo caso il silenzio non viene utilizzato come arma per punire o castigare l’altro.
La persona che invece ricorre al silenzio come punizione di solito lo fa perché non ha altre risorse psicologiche per affrontare la situazione.
Il silenzio è la sua risposta per diversi motivi:
Pensa che il suo interlocutore non lo ascolti, che non sia aperto al suo punto di vista e quindi usa il silenzio per “costringere” l’altro ad ascoltarlo.
Pensa che il suo interlocutore dovrebbe scusarsi per il suo atteggiamento o le sue parole, e usa il silenzio come avvertimento.
Pensa che sia inutile parlare dell’argomento perché non riuscirà a raggiungere un accordo, così utilizza il silenzio per fare in modo che l’altro ceda.
Si sente profondamente offeso, ma non vuole riconoscerlo e usa il silenzio in modo che l’altro si ravveda.
Non vuole affrontare una questione sensibile, quindi accusa l’altro e lo punisce con il silenzio, per fare in modo che cambi argomento.
Qualunque sia la ragione, l’uso del silenzio ha come fine quello di piegare l’altro,
è una sorta di punizione attraverso la quale si incolpa l’altra persona e si mette la responsabilità della relazione nelle sue mani. È come dire “non dirò nient’altro, vedi tu cosa vuoi fare, la responsabilità ultima è la tua“.
Cosa significa? Che non si è interessati a risolvere il conflitto attraverso il dialogo, ma si vuole semplicemente che l’altra persona accetti il proprio punto di vista.
Ana Maria Sepe
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